ARCADIA93
 

Paganesimo, Sciamanesimo, Gnosi, Thelema, Magia Stellare

 

 

Pen Ar Bed
Tradizioni, Culti e Magie dell'Antica Bretagna
di Ardath Lili
 

La Bretagna deve il suo nome all’immigrazione, nel V°sec a.C., di coloni Celti fuggiti dalla Britannia in seguito all’invasione dei Sassoni.
Le popolazioni che vi si erano stanziate sin dalla preistoria resistettero lungamente all’invasione dei Celti, che a loro volta si opposero strenuamente all’invasione romana. Soltanto nel 57 s.C., Cesare ne piegò la resistenza, che tuttavia si mantenne molto forte per tutto il tempo della dominazione romana.
La Bretagna seguì successivamente la sorte di tutta la Gallia romana e subì la massiccia invasione dei Franchi nel corso del IVsec, cui seguì l’abbandono da parte di Roma.
Mai completamente domati, i Bretoni divennero formalmente sudditi della monarchia merovingia prima e di quella carolingia poi, ma rimasero di fatto indipendenti.
La Bretagna perse definitivamente la sua autonomia sul finire del sec XV, in seguito al passaggio definitiva della regione alla corona francese, sotto Francesco I.

Inizialmente la monarchia rispettò l’autonomia della Bretagna, ma nel corso del XVIII, avviò un processo accentratore che provocò il sorgere di tendenze autonomistiche.
Queste si manifestarono drammaticamente con l’insurrezione degli chouans , nel 1795 e nel secolo XIX con lo sviluppo di movimenti culturali regionalisti.
Certamente l’isolamento secolare in cui la Bretagna era rimasta, causato dalla posizione geografica, dalla natura accidentata e dalla povertà del suolo, aveva permesso a questa ragione di conservare per lungo tempo le tradizioni nella lingua e nei costumi religiosi e civili, ma in questo clima di resistenza al potere istituzionale, i Bretoni sentirono impellente l’esigenza di tutelare le proprie usanze e cultura, nell’intento di mantenere salda la coesione sociale.
Pertanto i culti religiosi, i canti, le danze, il vestiario, divennero elementi preziosissimi per rinforzare il sentimento di appartenenza alla propria terra, poiché permettevano la differenziazione con il resto della Francia, rendendo la Bretagna una regione con una propria storia ed una cultura autonoma da difendere.
La particolarità di questa regione non passò certamente inosservata agli intellettuali del primo Ottocento che, influenzati dal movimento culturale romantico e dalle problematiche da esso aperte, si dimostravano alquanto sensibili a tutte le produzioni popolari.
Essi trovarono nella Bretagna una fonte inesauribile di miti, leggende, canti, credenze religiose che essi videro come la sopravvivenza dell’antica cultura celtica.
Si sviluppò, (un po’ come succede oggi argh!) un vero e proprio fenomeno di celtomania, in cui si assistette alla mitizzazione di questo popolo del passato: tutto ciò che apparteneva alla tradizione bretone, veniva riferito all’epoca celtica, anche se ciò non corrispondeva ad una verità storica.
Persino i monumenti megalitici, appartenenti invece all’età neolitica, vennero identificati come i templi in cui officiavano i druidi, i sacerdoti celti.
Intorno al 1839 comparvero le prime raccolte di canti popolari bretoni, come “Barzaz Breiz” di La Villemarquè, che miravano a ricostruire, attraverso la poesia popolare, l’epopea bretone.


La trasmissione della letteratura orale

Una canzone o una storia che nessuno canta o racconta, non esiste più. Affinché rimangano bisogna che esse entrino a far parte del patrimonio comune e che soprattutto si trasmettano di generazione in generazione.
Se un tempo questa trasmissione avveniva facilmente, ora le modalità per assicurare tale trasmissione sono molto incerte. Quali sono le canzoni e i racconti che si trasmettono con più facilità? Quali sono poi i momenti propizi per questa trasmissione?
In passato racconti e canzoni erano legati a circostanze precise (festa della mietitura, filatura delle reti da pesca, matrimoni ecc..)e la trasmissione era unicamente orale.
Ora non è più il ritmo stagionale del lavoro che spinge la gente a riunirsi: la meccanizzazione dell’agricoltura che ha provocato l’esodo dalle campagne e la televisione, che ha rimpiazzato le “veglie” familiari, hanno fatto sparire queste forme di socializzazione.
La trasmissione di questa parte del patrimonio culturale, deve dunque avvenire in altro modo.
Da una trentina di anni, in Bretagna, persone molto attaccate alla propria regione e coscienti dell’imminente perdita di tale patrimonio, si sono organizzati nel tentativo di far rivivere e trasmettere racconti e canzoni del passato.
E’ nato così il “Gruppo culturale Bretone” e con esso una serie di attività essenziali alla valorizzazione e alla diffusione nei villaggi della cultura popolare.
A questo scopo sono state create nuove occasioni di incontro, come la Bogue, le Festou-Noz e gli “Spettacoli dei Cantori”.

La Bogue

Questa festa popolare di creazione recente, si svolge nel villaggio di Redon (Golfo del Morbhian). Raduna sia abitanti della campagna che cittadini, persone di tutte le età e professione.
Il “cantare” è elemento essenziale di questo tipo di festa; si va allo spettacolo non per guardare ma per cantare tutti insieme le canzoni della propria terra e ciò crea una grande intimità fra i partecipanti.
Si può dire della Bogue che essa non vuole “far vedere” ma vuole “far fare”.
A testimoniare questo sta il fatto che gli organizzatori impediscono del tutto l’accompagnamento musicale per favorire la comprensione della parole (dato che spesso la musica copre il testo) e facilitare così la partecipazione e la memorizzazione. Bisogna sottolineare che la struttura ripetitiva, tipica di molte canzoni popolari tradizionali, aiuta ad impararle velocemente.

Spettacoli di cantori

Per ciò che riguarda i racconti, la trasmissione è più aleatoria e quindi più difficile. Inoltre si è creata, tra i racconti di un tempo e quelli presentati attualmente, una differenza sostanziale.
Nel passato una delle caratteristiche peculiari della letteratura orale era l’anonimato; essa partiva dal popolo e ritornava al popolo che era nello stesso tempo creatore e ricettore, cosicché tale letteratura apparteneva a tutti e a nessuno.
Adesso invece si può stabilire che tale racconto appartiene al tal cantore poiché ognuno ha il suo modo di raccontare e caratterizza i racconti con la propria personalità.
I racconti attuali assomigliano più a delle storie divertenti che ai racconti del passato, lo stile è completamente differente.
Queste narrazioni, una volta ridotti al loro minimo narrativo, sono assai corti e ciò che fa l’abilità del cantore è proprio la capacità di ampliare ed arricchire in modo personale il nucleo creativo.
Esistono così diverse versioni di uno stesso racconto alquanto dissimili fra loro.
Nelle analisi strutturali del racconto (W.Propp) la struttura della narrazione è formata da nuclei (funzioni cardinali) che sono consecutivi, cioè seguono la cronologia del racconto ed è impossibile sopprimerne uno senza che la storia diventi incomprensibile.
Sarà esattamente questa la parte del racconto che verrà trattenuta dall’ascoltatore e forse trasmessa. Dipenderà poi dal talento di ciascun cantore l’inserimento tra i nodi narrativi di nuovi elementi capaci di rendere il racconto più piacevole, intrigante e quindi più facile da ricordare.
Dal punto di vista contenutistico molti racconti fanno riferimento a modi di vita o ad avvenimenti attuali opposti a quelli del passato: rurale/urano, tradizione/progresso, passato/presente.
Ma ci si chiede; questo tipo di racconti sopravvivrà fra quindici, venti anni? Riuscirà a diventare parte del patrimonio culturale collettivo?
Il dibattito è molto acceso all’interno dei Gruppi culturali Bretoni.
Da una parte si sostiene che i racconti più vicini per contenuto a quelli del passato, avranno più possibilità di essere trasmessi alle generazioni successive; dall’altra invece, si prende coscienza della impossibilità di conservare le immagini del passato.
Per altri l’unico modo di trasmettere questa letteratura sia di fare del nuovo restando nello “spirito della tradizione”.
L’interesse suscitato non tanto nei turisti, quanto nei Bretoni stessi da tale genere di spettacoli e feste, testimonia il successo del desiderio di stare insieme, la lotta contro la standardizzazione, la ricerca delle proprie radici per mettere in luce la propria identità etnica.
Vi sono infatti persone disposte a percorrere centinaia di km pur di partecipare a queste manifestazioni e questo perché l’interesse va aldilà del puro divertimento.
Ciò che mi preme sottolineare, inoltre, è che questa organizzazione e spettacolarizzazione della tradizione bretone non nasce esclusivamente dall’esigenza di incrementare l’afflusso turistico, ma al contrario ha motivazioni legate più all’ambito culturale che alla speculazione economica. E questo offre buone possibilità alla letteratura orale bretone di garantirsi un futuro.


Le erbe magiche e  la farmacopea tradizionale Bretone

Come la maggior parte delle regioni d’Europa, la Bretagna ha ereditato dal proprio passato una medicina tradizionale che si è perpetuata fino ai nostri giorni.
Tale medicina comprendere anche l’impiego delle erbe: questa pratica fa parte di un insieme di relazioni che l’uomo tesse con ciò che lo circonda e il particolare con regno vegetale.
Gli alberi, soprattutto giocano un ruolo simbolico fondamentale nella mentalità collettiva. Si tratta di culti ed usanze che risalgono a tempi molto lontani, addirittura al tempo preistorico.
I Celti manifestavano un rispetto religioso per certi alberi e conoscevano le proprietà farmacologiche delle erbe medicinali. Anche i Galli raccoglievano erbe a fini terapeutici.
Una delle erbe più apprezzate dai bretoni era la  verbena che permetteva di scacciare la febbre, guarire i morsi dei serpenti, in breve, guarire tutti i mali e ottenere tutto ciò che si desiderava.
Ma affinché essa avesse questi poteri, occorreva raccoglierla in condizioni particolari, cioè nel momento in cui si alzava nel firmamento la costellazione del Cane, quando Luna e Sole sono assenti nel cielo.
La cerimonia cominciava con l’offerta rituale di un favo alla terra, come penitenza del furto che si andava a commettere e alla ferita che si causava.
Poi bisognava tracciare un cerchio intorno alla pianta con un’arma di ferro, sradicarla con la mano sinistra ed alzarla in aria.
Il sesto giorno di luna, un sacerdote vestito di bianco dava inizio alla cerimonia del ringraziamento: i rami di verbena venivano raccolti in un bianco telo e venivano sacrificati due tori altrettanto bianchi in segno di riconoscenza.
Numerose altre erbe erano in uso presso gli antichi bretoni come l’assenzio di Saintogne dalle indiscutibili proprietà vermifughe.
Le erbe erano anche l’ingrediente principale di pozioni magiche o filtri d’amor e spesso, i racconti popolari bretoni portano il ricordo dei loro poteri miracolosi.
In un racconto particolare “Le petit cochon noir”, il protagonista, un finto medico, cura un malato “facendolo addormentare per guarirlo”.
Si tratta senza dubbio di una reminescenza dell’utilizzo di anestetici vegetali; infatti l’insensibilizzazione con agenti farmacologici era conosciuta da molto tempo.
E’ noto, ad esempio, che per tale scopo veniva usata una ricetta in cui erano mescolate mandragora ed erbe mora; anche la belladonna e tutte le solanacee in genere facevano parte delle misture destinate a provocare allucinazioni, il sonno o la morte.
Le regole di vita, i consigli dietetici e lo stesso uso delle erbe medicinali erano una comunione tra l’uomo e la terra, l’essere e il cosmo.
Le erbe medicinali ristabilivano un legame rotto o deteriorato, un’armonia perduta.
La ricerca della guarigione non seguiva quindi vie scientifiche, ma un cammino rituale che permetteva di stabilire relazioni tra gli individui, tra l’uomo e ciò che lo circonda.
La parola bretone LOZOU esprime bene questa concezione della medicina: tale termine indica tutte le sostanze, piante medicinali o anche semplici erbe commestibili, che permettono all’individuo di creare un equilibrio tra il mondo e se stesso.
Prova concreta di come questo modo d’intendere la medicina sia ancora molto forte in Bretagna, è che l’uso della parola LOZOU, lontana dall’essere confinata nella lingua bretone è passata largamente nel francese.
Il LOUZAOUER era il guaritore o il medico, ma anche l’erborista, o il botanico.
In senso lato comunque esso era un esperto della natura, capace di ricondurre l’uomo in uno stato di benessere e armonia, facendogli così ritrovare la salute perduta.
Egli conosceva tutto delle erbe: le proprietà, le regole per la loro  raccolta, la posologia. Nulla era casuale, tutto seguiva regole precise.
Esistevano vari tipi di guaritori: i massaggiatori, che riuscivano con un colpo di mano a ridurre una frattura, oppure maghe che utilizzavano formule sacre e gesti rituali. Per guarire dalle verruche per esempio, si consigliava di tracciare intorno alle pustole un cerchio con il pollice annerito precedentemente dalla fuliggine.
Per i brufoli invece bisognava procurarsi una medaglia d’argento sulla quale veniva incisa una croce, applicarla sulla zona infiammata e recitare molto velocemente e senza prendere fiato questa filastrocca: 

Ar werbl en deux nao verc’h
Eus a nau e teu da eiz
Eus a eiz e teu da seiz
Eus a seiz e teu da c’hwec’h
Eus a c’hwech e teu a bemp
Eus a bemo e teu da bevar
Eus a bevar e teu da deir
Eus a deir e teu da ziw
Eus a ziw e teu da unam
Eus a unam e teu da dra 

(Trad: Il foruncolo ha nove figli, Da nove diventan otto, da otto sette, da sette sei , da sei cinque, da cinque quattro, da quattro tre, da tre due, da due uno e da uno zero).

Pensare che queste procedure siano ormai smarrite, sarebbe un errore: niente è più vivo oggi dell’arte del guaritore, la quale trionfa soprattutto là dove la medicina si rivela impotente.
Chi soffre di eczemi ad esempio, o di reumatismi, si affida spesso alle guaritrici; basti pensare che soltanto nei dintorni di Quimper sono una quindicina ad esercitare questa arte tra scienza e magia.
La medicina in Bretagna non è separata dalla religione e , conseguentemente, la terapia non è indipendente dal rito.
Le erbe, in quanto medicinali, sono sacre e ciascuna di essere rappresenta un’occasione privilegiata di comunione universale.
Una pianta in particolare merita attenzione: si tratta dell’Erba d’Oro.
Essa non è mai stata identificata e forse appartiene solamente al mito. Deve il suo nome al fatto che di notte essa brilla come un piccolo sole; cresce solitamente nei prati e nulla, durante il giorno, permette di riconoscerla.
Ha la curiosa proprietà di risalire i fiumi controcorrente e quando si riesce a possederla, dopo averla raccolta secondo regole precise, essa permette di trovare tesori nascosti.
Camminare anche per caso sull’Erba d’Oro, dona il potere di capire il linguaggio degli uccelli e quindi la capacità di comunicare con loro.
Escludendo quest’erba del tutto particolare, la farmacopea bretone, pervenuta fino ai nostri giorni, comprende una trentina di piante di cui si ebbe menzione, per la prima volta, nel dizionario di Père Gregoire, edito a Rennes nel 1732.
Esse prevenivano in forma diretta dalla tradizione ancora vivente a quell’epoca.
I parassiti erano numerosi in passato e liberarsi dalle infestazioni costituiva un problema costante.
Contro i pidocchi era consigliata la fusaggine chiamata appunto dai Bretoni LOUZAOUEN AL LAOU, erba dei pidocchi; un tipo di menta che cresce in zone umide era utilizzato contro le pulci, ma serviva anche contro la tosse, grazie al suo potere antispasmodico.
Contro la tigna il rimedio era la bardana che oggi sappiamo avere un principio antibiotico.
Essa veniva chiamata curiosamente “erba del grembo”: si pensa che questo nome sia derivato da una confusione tra il francese bardane e il bretone barlen che significa appunto grembo, ventre.
Le ferite di ogni tipo costituivano un capitolo importante nella patologia. Nel dizionario di Père Gragoire è segnalata l’esistenza di un’erba emostatica chiamata LOUZAOUEN AN DIWAD o erba dell’emorragia, il cui succo, aspirato dal naso, arrestava il sangue.
Il girasole invece era specifico per la distruzione delle verruche, mentre la viola selvatica era efficacissima contro l’eczema.
La celidonia, chiamata in Bretone AR SKLER, la chiara, era molto usata per curare infezioni oculari.
Ottimo stimolante per l’organismo era l’infuso di Achillea millefoglie, chiamata non si sa il perché louzaouen ar c’halvez, erba del carpentiere, eccellente digestivo e tonico.
Per il cuore c’era la melissa, le cui proprietà calmanti sono note ancora oggi.
Bisogna ricordare ancora una volta l’importanza che avevano per l’efficacia delle piante medicinali, le modalità di raccolta: le erbe potevano essere raccolte soltanto di notte, alcune sradicate con la sola mano sinistra e senza l’uso di utensili in metallo, altre prelevate recitando una filastrocca o una formula magica.
Le virtù intrinseche del vegetale non si sarebbero conservate se non si rispettavano le regole.
Occorreva il massimo rispetto per la terra che offriva i medicamenti all’uomo, altrimenti si sarebbe spezzato il legame armonico tra esseri umani e natura.
L’erba d’oro poi esigeva un rito particolare: per raccoglierla bisognava essere in camicia e a piedi nudi. Quando la si vedeva, occorreva tracciare attorno ad essa un cerchio, poi sradicarla facendo attenzione a non spezzarla. Quale significato aveva questo rito?
Officiare a piedi nudi rivela un comportamento sacro molto antico, che vuole indicare una profonda comunione con la terra; la camicia invece sostituiva l’antico abito cerimoniale, solitamente molto ampio e  bianco.
Anche il cerchio disegnato intorno alla pianta è un simbolo arcaico conservato nella magia sino ai nostri giorni, in quale rende sacro ciò che contiene.
Infine, il divieto di tagliare la pianta, serve a mantenere intatte le proprietà magiche del vegetale, senza disperderle attraverso ferite.
Se il rito non viene eseguito secondo le regole o l’erba d’oro viene tagliata inavvertitamente, l’armonia degli elementi si rompe, il cielo si oscura, comincia a piovere e si può essere vittima di un malore.
A questo culto delle erbe se ne aggiunge un altro di eguale importanza: il culto degli alberi.
Se si fa opera di ricerca all’interno della tradizione bretone, si possono trovare innumerevoli testimonianze di tale culto.
Il concilio di Nantes nel 658 si pronunciò molto duramente nei confronti dei culti arborei, tanto che nel canone XX troviamo scritto:
“I vescovi e i loro ministri devono lottare con grande impegno affinché gli alberi consacrati al demonio che il popolo venera così fortemente da non osare tagliarne neppure un ramo, siano distrutti fino alla radice e bruciati. (…)”

Ovviamente, in seguito a tali predisposizioni, molti degli alberi sacri scomparirono, e con essi i riti in loro onore; forse è proprio questa la ragione per cui l’importanza religiosa degli alberi è apparsa ai folkloristi molto minore di quella delle pietre o delle acque (fontane magiche).
Comunque tuttora si trovano alberi che sostituirono altri più antichi morti di vecchiaia o abbattuti dal Cristianesimo: si tratta prevalentemente di vecchie querce nel cui tronco è stata posta la statuetta della Vergine, per giustificare il culto che l’albero riceve.
A testimoniare quanto il culto arboreo è ancora presente nella tradizione Bretone è l’usanza di piantare un albero nei primi giorni di maggio, periodo in cui si svolge la festa di Bel, il sole di primavera.
In certi luoghi, all’epoca della Rivoluzione Francese, questo costume si conformò alle nuove idee e l’albero di maggio divenne così l’Albero della Libertà; è sotto questo nome che il rito esiste ancora oggi nei villaggi di Pouldavid e Douarnenez, dove si ripete tutto gli anni.
Poco lontano, a Locronan, si perpetua un rituale di epoca preistorica e di ispirazione pagana: in una notte del mese di maggio (i profani non sanno bene quale), gli officianti si recano nella campagna per abbattere un faggio, giovane ma già robusto e lo portano sulla piazza del borgo. Lo sistemano in piedi vicino ad un vecchio pozzo e qui resterà fino al solstizio d’estate, quando verrà tagliato a pezzi e bruciato.
L’albero , come altri vegetali, è ritenuto la dimora di un’anima disincarnata. Essi sono presenti sotto questa veste in moltissimi racconti e leggende: si tratta solitamente di una coppia, marito e moglie, che devono portare a termine sotto questa forma una parte della loro vita nell’aldilà.
Nei “Voyages vers le soleil” di Luzel, il viaggiatore protagonista incontra una coppa di alberi che si picchia con una tale furia da far volare lontano pezzetti di corteccia e di legno.
Si trattava di due sposi che avevano litigato continuamente durante la loro vita e che il dio sole aveva condannato alla medesima pena nell’aldilà.
Il viaggiatore, preso da pietà, interpone un bastone tra i due alberi-sposi, mettendo così fine ad una punizione che durava da trecento anni.
Questo tipo di racconti testimonia la concezione di un mondo popolato di anime che obbliga ad un grande rispetto per la natura; infatti per non ferire o uccidere l’anima di un essere umano, magari un parente o qualcuno di caro, si evita di danneggiare qualsiasi albero o pianta.
L’albero e l’uomo presentano numerose analogie. Entrambi sono eretti e suddivisi in tre parti ben distinte:  quella superiore, con testa e braccia (cima e rami), quella mediana, con il tronco e quella inferiore con le gambe (radici).
L’albero viene visto come un antenato, poiché vive più dell’uomo e conseguentemente conosce più cose. Chi comprende il linguaggio degli alberi può avere notizie sugli eventi del passato e conoscere la saggezza del mondo. La sua robustezza e nobiltà ne fanno un simbolo di maestosità.
La maggior parte degli alberi venerati, dal Medioevo fino ai giorni nostri, erano querce, forse perché alberi alquanto longevi e quindi duraturi nel tempo.
Esistono ancora persone che parlano, senza sapere spiegare il senso, dell’ eskop derw , il vescovo della quercia, un personaggio tra il prete e il filosofo, probabilmente maggiore esponente del culto dell’albero.
Questo sentimento di rispetto nei confronti degli alberi è ancora molto vivo nella collettività bretone: è uso comune, ad esempio, in momenti di stanchezza fisica o psichica, abbracciare un albero per scaricare le influenze negative ed assorbire in cambio l’energia positiva della pianta.
Albero simbolo di vita dunque, ma anche legame con il mondo non c’è, con l’inconoscibile, passaggio magico fra vita terrena e l’aldilà.
Come il menhir anch’esso si protende verso il cielo, come un ponte immaginario tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Ancora una volta il sentimento religioso sembra essere il trait d’union tra passato e presente, vera testimonianza di una continuità all’interno della tradizione bretone.
Il legame che i Bretoni sentono nei confronti dei morti è molto forte e trova riscontro, oltre che in numerose feste ad essi dedicate, anche in questa esigenza di ritrovare i defunti ovunque nel mondo circostante.
Questo sentimento cmq, non può essere compreso a fondo senza prendere in considerazione la concezione che i Bretoni hanno della morte e osservare quale elaborazione, in ambito popolare e culturale, è stata fatta di tale argomento.


 La morte

"Addio cappellini, mazzolini, fiorellini.
Addio amanti e pulzelle.
Ricordatevi spesso di me e riguardatevi,
se siete saggi. Piccola pioggia abbatte gran vento."

Il più importante Dio della Bretagna è la Morte.
Già i galli, secondo Cesare, si consideravano discendenti del Re degli Inferi. Per i Bretoni lo stesso dio, che chiamano Ankou, domina l’universo; tutto infatti è a lui sottomesso, persino il dio cristiano, poiché Gesù ha dovuto subire la sua legge.
Scrisse Annibale Le Braz nel suo “La leggenda della morte”: tutta la coscienza di questo popolo è orientata verso le cose della morte e l’idea che ne hanno, malgrado l’impronta cristiana, non sembra molto diversa da quella riscontrata presso i loro antenati pagani”.

Ma chi è Ankou? E qual è il senso del suo nome?
Questo personaggio della mitologia Bretone, non è il dio del mondo sotterraneo, non corrisponde al diavolo della tradizione cristiana.
Ankou è l’Accompagnatore, colui che conduce le anime da un mondo all’altro e il suo potere è assoluto.
Il suo nome non ha un’etimologia certa, ma evoca immediatamente delle sonorità vicine: anken, il dispiacere e ankounac’h, l’oblio.
Il suo aspetto varia: le rappresentazioni più antiche lo mostrano sottoforma di scheletro che tiene in mano una freccia.
In altre opere più recenti, come la statuetta di Ploumiliau, lo scheletro regge con una mano una falce la cui lama è montata a rovescio.
A volte, nei racconti, Ankou ha semplicemente l’aspetto di un uomo vestito da una cappa nera e con il viso coperto da un grande cappuccio.
Solitamente è alto, magro ed ha la capacità di prendere sembianze diverse. Ankou non agisce da solo: egli avanza su di un carro, la cui caratteristica principale è quella di avere le ruote cigolanti, cosicché tutti possono sentirlo arrivare.


ANKOU

              
(immagini tratte da: http://www.thanatos.it/cultura/tradizioni/ankou.htm ) 

 
 

 
varie rappresentazioni di Ankou

Ankou è generalmente accompagnato da due accoliti; il primo toglie gli ostacoli per permettere al carro di procedere senza intoppi, il secondo carica i morti.
E’ lungo sentieri particolari che si può incontrare questo lugubre equipaggio: si tratta solitamente di antiche vie abbandonate dal traffico abituale e tagliate fuori dalla vita quotidiana.
Vengono chiamati in bretone henkou ar Maro, i sentieri della Morte; è sconveniente e pericoloso chiuderli, perché si può disturbare il passaggio di Ankou.
Nelle zone che costeggiano il litorale, il Maestro, come anche viene chiamato, ama spostarsi per mare servendosi di una barca, la bag-noz o battello della notte.
In barca o con il carro, chiunque lo incontri, ritorna a casa per coricarsi e sparire da questo mondo pochi giorni dopo.
Vi sono comunque delle eccezioni, senza sapere a cosa esse sono dovute: succede infatti che alcune persone, pur avendo visto Ankou, non subiscano danni di alcun tipo.
Frequenti sono i racconti che hanno come protagonista un fabbro che si attarda a lavorare oltre la mezzanotte. Gli compare davanti un uomo sconosciuto, il quale lo invita ad affilare una falce montata in modo curioso; come ringraziamento lo sconosciuto rivela la propria identità e dice al povero fabbro di dare le sue ultime disposizioni.
Così Ankou è rimasto fino al XX° secolo il più “vivo” degli Dei.
Nella tradizione cristiana egli è considerato il servitore di dio, ma nella maggior parte dei racconti Bretoni, Ankou si mostra perfettamente autonomo.
Il terrore degli inferi nacque dall’operato degli emissari della Chiesa, che lanciarono maledizioni contro le feste pagane, le danze e la libera sessualità.
Ed ecco l’inferno comparire anche nei racconti popolari. Probabilmente in origine questi racconti avevano una matrice clericale ed erano destinati a rafforzare la potenza repressiva delle fiamme eterne. Intento che non ebbe grande successo se pensiamo che nei settantanove racconti pubblicati da Luzel sotto il titolo di “Racconti della Bassa Bretagna”, dell’inferno si parla una sola volta.
Quanto all’idea di sofferenza post mortem, invece non era estranea allo spirito celtico e il Purgatorio cristiano, contrariamente all’inferno, è stato interamente adottato perché non era altro che un nuovo nome per un’antica credenza.
I racconti e le leggende sono molto prolissi nelle descrizioni di quello che si può chiamare “mondo intermedio”. Questo luogo appartiene già in certo qual modo all’aldilà, ma i suoi abitanti sono ancora legati al mondo dei vivi.
Tali defunti ancora partecipi dell’universo che hanno lasciato, si chiamano Anaon : sono anime erranti che si manifestano agli uomini per domandare loro aiuto o, al contrario, per vendicarsi di un nemico.
I viventi hanno la possibilità di vederli soltanto se conoscono le parole o i gesti per evocarli.
Certi Anaons prendono le sembianze di esseri viventi: animali, piante, rocce, uomini. Spesso li si incontra sotto forma di alberi o menhirs, come detto prima.
Gli Anaons sentono il freddo e la fame; per questo gli si preparano i pasti nel corso di alcune feste particolari ad essi dedicate, oppure gli si lasciano regolarmente avanzi sulla tavola.
Non è difficile individuare, in tali usanze, il perpetuarsi dell’antico costume delle libagioni poste all’interno delle tombe.
Quanto al freddo che essi sentono, risale anch’esso all’antica concezione che vedeva l’oltretomba come un luogo buio e gelido non potendovi esistere il fuoco, elemento appartenente alla terra. Forse questa visione dell’aldilà fu influenzata anche dal tipico clima bretone, ventoso e piovoso per buona parte dell’anno.
Al mondo intermedio appartengono anche gli “Esseri della notte”: ve ne sono di tutti i tipi, ma sovente incontrarli non è piacevole.
Alcuni si accontentano di scherzi senza conseguenze, come per esempio, effettuare trasformazioni in rapida successione davanti agli occhi esterrefatti del malcapitato essere imano. Altre volte invece, si divertono a disarcionare un cavaliere o a gettare un passante nel fiume che sta attraversando.
Fa parte degli esseri della notte anche l’hoper-noz l’urlatore della notte; egli lancia il suo grido acuto nell’oscurità ed è consigliabile non rispondere se si tiene alla propria vita.
La prima risposta al suo grido lo fa avvicinare della metà della sua distanza, la seconda risposta ancora della metà, e la terza volta esso vi assale per strangolarvi o annegarvi.
Si dice che gli hoper-noz siano anime senza pace che invocano la sepoltura e la loro forza raggiunge il massimo della potenza a mezzanotte.
All’interno della Bretagna, nelle campagne, bisogna temere soprattutto la MAOUEZ-NOZ ossia la donna della notte, più conosciuta con il nome di KANNERZ-NOZ, la lavandaia notturna.
Solitamente ella tiene in mano un lenzuolo bagnato e domanda a chi ha la sfortuna di incontrarla, di strizzarlo insieme a lei; se il malcapitato accetta si troverà con le braccia spezzate.
L’unico modo per salvarsi è quello di seguire, nell’attorcigliare il lenzuolo, lo stesso senso della donna.
Tutti gli Esseri della Notte comunque non hanno un ruolo morale, non sono dei giustizieri.
Essi attaccano gli innocenti quanto i criminali che si avventurano nel loro territorio. Esistono così dei veri e propri tabù che conviene rispettare se non si vuole finire inavvertitamente nel territorio riservato agli esseri defunti, attirando la loro vendetta.
Innanzitutto è sconsigliabile compiere qualsiasi attività lavorativa oltre la mezzanotte, poiché le ore della notte  fonda appartengono al mondo dei morti; poi non è considerato prudente avventurarsi lungo sentieri sconosciuti o abbandonati, oppure vicini a corsi d’acqua.
Esistono luoghi privilegiati per Anaons, siti che essi amano più di altro: primi di tutti i luoghi dove essi sono vissuti, ma anche luoghi particolari, come l’isolotto di Tévennec, dove si incontrano gli annegati in mare.

 
Isolotto di Tévennec

Del resto in Bretagna, quasi tutte le isole disabitate vengono considerate patrimonio dell’Adilà.
E ciò si deve all’antica credenza che vedeva il passaggio all’altro mondo come un viaggio per mare verso terre sconosciute.
Già Procopio raccontava come lungo il litorale della Gallia, giusto davanti alla Gran Bretagna, abitasse un popolo di contadini e pescatori che da tempi lontani erano specializzati nel passaggio dei defunti verso l’altro mondo.
La tradizione del passaggio dei morti si è conservata nelle leggende e nelle credenze popolari fino ai nostri giorni e testimonia come il popolo Bretone abbia sempre rifiutato l’idea di una frattura all’interno del ciclo vitale e naturale. La morte non separa dalla natura; l’essere umano cambia l’aspetto, l’esteriorità, ma continua a far parte del mondo dei vivi.
Credo che questa visione della vita dopo la morte sia un adattamento effettuato dal popolo delle teorie filosofiche dei druidi celtici; la convinzione popolare che mondo terreno e aldilà si compenetrino, riconduce alla ricerca alchemica da essi effettuata, al loro desiderio di individuare la legge primaria che unisce tutti i fenomeni della natura, che crea armonia tra gli elementi.
Non si possono avere prove certe riguardo tale teoria, poiché come è noto, i druidi trasmettevano il loro sapere esclusivamente per via orale.
E’ quindi necessario basarsi esclusivamente sulle “sopravvivenze”, ossia su ciò che è restato di culture precedenti nella cultura popolare odierna.
Certo è che queste credenze si sono mantenute inalterate per lunghissimo tempo, evitando quei contagi culturali che hanno invece trasformato altri ambiti del folklore Bretone.

 

Gli Dei di ieri e di oggi

La terra d’Armorica porte in sé le tracce dei suoi antichi abitanti, il loro spirito e i loro culti; si può affermare che gli Dei di un tempo vivano ancora oggi.
Noi li incontriamo sotto mille forme e molto spesso a nostra insaputa: la loro venerazione, divenuta inconscia, può essere riconosciuta ovunque qui in Bretagna.


BELENOS

Il Dio della Luce, colui che dona il chiarore del giorno, il Sole, dispensatore di vita, era conosciuto come Belos o Belenos, il Luminoso. Iscrizioni a lui dedicate sono state trovate anche in Italia a Venezia, Rimini e in tutta la zona che i romani chiamavano la Gallia Cisalpina.
Il poeta Ausonio (310-395) parla, nella sua opera “Ordo urbium nobilium”, di due templi di Belenos, uno a Bordeaux, l’altro a Bayeux e in entrambi i casi nota che il loro cappellano appartiene ad una famiglia di druidi. Tutt’ ora molti villaggi portano un nome legato al tanto venerato Belenos; è il caso di Bearne, cittadina della Borgogna il cui antico nome era “Beleno Castro” o di Belena nell’Alta Lorena, per non parlare degli innumerevoli luoghi sparsi in tutta la Francia che si chiamano Bel-Air.

Solitamente di tratta di luoghi situati in posizioni elevate in modo da dominare borghi o villaggi e ciò fa pensare che essi fossero dedicati al culto di Belenos.
In certe regioni, nell’ovest e nel centro della Francia, un comune su tre possiede un sito che porta il nome di Bel-Air. E’ da notare anche il fatto che questi luoghi chiamati Bel-Air non si trovano mai all’intero delle antiche mura delle città, ma sempre in prossimità delle porte.
Nella Langue d’oc, il nome si incontra più raramente, ma troviamo anche qui dei Belloch, equivalente del francese Beaulieu riconducibile sempre a Bel.


BELISAMA

Dedicato a Belenos era anche il mese di maggio, periodo in cui cadeva il Solstizio d’Estate e di conseguenza la festa religiosa più importante sin dai tempi della preistoria; si festeggiava la rinascita della natura e il ritorno del sole alto nel cielo. Tutt’ora in Bretagna sono numerosissime le feste popolari che si svolgono in questo mese.
Accanto a Belenos, re del firmamento, veniva adorata Belisama, la Regina del Cielo. Una città francese le deve ancora il proprio nome: è Bellème, la cui chiesa, dedicata alla Vergine Maria, ha sostituito senza dubbio il tempio dedicato alla Dea. E’ lecito pensare, inoltre, che anche molte altre chiese che portano il nome di Notre Dame fossero un tempo luoghi di culto in onore di Belisama.
Nella mitologia Bretone, un’altra donna soprannaturale contende il primo posto alla Regina del Cielo: è la Dea delle Acque e dell’Amore, solitamente rappresentata sotto forma di sirena, a volte con la coda di pesce, altre con quella di serpente.
La tradizione Bretone distingue due personaggi dello stesso tipo: uno è Dhaud regina delle acque e del mare, spesso identificata anche con Morgana, la sorella di Re Artù, il cui nome significa appunto “nata dal mare”.

L’altra invece è la principessa Ahès, regina delle acque dolci: la fata Viviana che alleva il giovane Lancillotto nel suo palazzo immerso nel lago di Comper è un altro volto della stessa Signora.
Entrambe comunque rappresentano l’amore, la bellezza femminile, l’attrazione fra i sessi.
Il Cristianesimo ha rivolto verso di esse maledizioni su maledizioni, proprio per la profonda sensualità che esse esprimono, ma le loro figure continuano ad ornare fontane sacre e chiese.


Madonna di Brennilis

Una delle più belle rappresentazioni di Sirena che testimonia la scarsa riuscita dei processi di cristianizzazione in Bretagna, si trova nella chiesa di Brennilis: essa è situata sopra ad un altare detto “delle Sibille”, in quanto l’ immagine di queste divinità compare nella decorazione lignea. Si vede prima di tutto una statua della Vergine che tiene in braccio il Bambino; ai suoi piedi, ma non schiacciata come il serpente della Genesi nell’iconografia cristiana, si protende un’affascinante sirenetta a seno nudo, sorridente e del tutto impudica.
La sua coda circonda la veste della Madonna e scompare dietro ad essa. La statua è addossata al muro e pertanto non si può vederne il retro, ma è proprio lì che è nascosta la sorpresa.
Quando infatti la statua viene portata in processione il 15 di agosto, si può notare che i capelli della Vergine, raccolti in una lunga treccia che scende lungo la schiena, va ad unirsi alla coda della sirena. Treccia e appendice caudale si confondono senza che si possa fare più alcuna distinzione fra l’una e l’altra, a testimoniare l’identità delle due figure.

Altro personaggio molto venerato in Armonica è Aieule, giovane donna dal fascino splendente. Sant’Anna, nonna di Gesù e madre della Vergine ha preso il suo ruolo in seguito alla cristianizzazione.
Non esiste chiesa in Bretagna che non possegga una statua o un dipinto a lei dedicato; solitamente viene rappresentata con un libro in mano ad indicare che essa è la detentrice del Sapere della Conoscenza.
Secondo la tradizione S.Anna era Bretone ed ella non passò che un breve periodo della sua vita in Giudea, dove si sposò e diede alla luce Maria. Ella ritornò poi in Armonica ed qui che suo nipote Gesù le rese visita prima di essere crocifisso. Ecco come è stata ricollegata la lezione cristiana con il passato e gli Dei.
Per una “curiosa coincidenza” poi, anche il nome Anna in ebraico significa, oltre che “grazia” anche “palude”, e infatti le due chiese più importanti dedicate alla santa si trovano esattamente vicino a paludi.
La palude era considerata dai Bretoni  uno dei passaggi per l’oltretomba e dunque luogo dove si svolgeva l’attività di Aieule, l’anziana, la Madre, colei che conosce il passato.
Figura molto significativa nella storia religiosa non solo della Bretagna ma di tutto l’Occidente, è quella del Gigante, chiamato  abitualmente con un nome donatogli da Rabelais: Gargantua.


DOLMEN di Brennilis


MENHIR  di Berrien

Questo personaggio sembra essere stato uno degli Dei più importanti; il suo dominio superava l’area di estensione dei Celti  forse la sua origine risale al periodo pre-celtico, cioè a quello megalitico.
Esso infatti è sempre legato ai menhirs o ai dolmens, che la tradizione popolare considera suoi giocattoli.
Nelle cronache del XII sec, Giraud de Cambrie lo identifica come figlio di Belenos, ma non si hanno notizie antecedenti sull’origine di questo Dio.
Il celebre Mont Saint Michel nel XIII sec portava ancora il nome di Mont Gargan e la roccia vicina si chiama ancora oggi Tombelaine, ossia tumba Beleni, la tomba di Belenos.
Gargantua è molto conosciuto nella Bassa Bretagna.
A Brasparts e a Quimerc’h si dice che egli sia alto due volte la roccia di Pleyben e i megaliti che si trovano tra Elon e Huelgoat devono a lui la propria origine; a Laz invece, si considera la Punta di Raz come sua dimora. Esiste anche un dolmen in rovina, nei pressi della cappella di Saint Herbot, che porta il nome di Be Gewr, la Tomba del Gigante.
Nella Bretagna orientale si trova poi il luogo della sua nascita: il Capo Frèchel, che è situato nella regione un tempo denominata Belerion, ad indicare la terra votata a Belenos.
Come si può notare, spesso i nomi di Gargantua e Belenos si trovano appaiati ed è stato questo probabilmente l’elemento che ha fatto pensare i cronisti del XII° secolo ad una parentela fra i due.
La presenza del gigante, così consistente in tutta la Bretagna, è riconoscibile anche in molta parte della Francia e persino in Italia: basti pensare al Monte Gargano in Puglia.
Grande mangiatore e bevitore, capace di incredibili prodezze aiutato dalla sua grande corporatura, Gargantua era un gigante buono; in tutte le tradizioni egli appare sempre benvoluto, simpatico e le cristianizzazione non è mai riuscita a intaccare questa reputazione di Dio bonario e allegro.
Egli si manifesta spesso sotto le spoglie di un pellegrino, tanto che a volte la sua leggende viene confusa con quella dell’Ebreo errante.
Ma se il padre del gigante era il sole, chi era la madre? In alcune leggende, alquanto rare, si dice che egli fosse figlio di Anna, ma anche a questo proposito non esiste una genealogia certa.
Ciò che sembra probabile comunque, è che appartenesse ad una trinità. Il culto della triplicità regnava nella società Celtica; l’iconografia gallica in particolare, ci ha consegnato numerosi personaggi divini, maschili e femminili, rappresentati in gruppi di tre.
La venerazione della Trinità è d’altra parte molto diffusa in Bretagna e un buon numero di villaggi porta il suo nome. Si tratta sempre di luoghi sacri per le società pagane che, con l’arrivo dei Cristiani furono convertiti alla nuova religione.
Nel XII° sec Guillaume de Malmesbury scrisse nella sua opera “Antiquités de l’Eglise de Glastombury”: “Un angelo apparve in sogno all’ apostolo recatosi in Bretagna e gli disse queste parole: ovunque tu troverai una femmina di cinghiale accucciata con i suoi piccoli, costruirai una chiesa in onore della Santa Trinità”.
La femmina del cinghiale che allatta i suoi piccoli, simboleggia l’insegnamento dell’Antica Religione ed è perciò probabile che il nuovo culto introdotto al posto del precedente, non fosse stato scelto a caso, ma che una trinità si fosse sostituita ad un’altra.


KERNUNNOS

A fianco degli Dei solari come Belenos ve n’è un altro, molto differente, che è giunto fino ai nostri giorni. Si tratta di Kernunnos, di cui esistono numerose rappresentazioni antiche; è il dio con le corna in relazione con la Terra, il mondo sotterraneo e l’Occidente.
L’Ovest porta ancora il nome bretone di Kornog e il vento che proviene da questa direzione si chiama Kornaouegh.
Tale credenza risale ai Celti oppure è antecedente? In effetti il culto delle corna e degli animali cornuti, nelle regioni occidentali dell’Europa, sembra risalire a molto prima dell’arrivo dei Celti.
Nelle sepolture di epoca mesolitica scoperte nell’isola di Teviec, vicino a Quiberon sono stati riesumati scheletri sui quali riposavano delle corna di cervo.

Bisogna ricordare anche la strana figura magdaleniana (11000 a.C.) incisa sulla volta della grotta dei Tre Fratelli, nei Pirenei, che rappresenta un dio avente la forma di un uomo con la testa ornata da corna ramificate.
Questo culto che risale dunque alla preistoria si è perpetuato fino ai nostri giorni: ecco perché, nella chiesa di Trèhorenteuc, nel Morbihan e non lontano dalla Valle senza Ritorno, vi è un affresco di età moderna che rappresenta il Cristo sotto l’aspetto del Cervo bianco di Brocèliande.
Le corna di cervo simboleggiano la vita, eterna sotto le fluttuazioni cicliche di morte e risurrezione.
Le maschere del carnevale un tempo erano costituite da teste di animali, in particolare di cervi e, in epoca merovingia, il sinodo ecclesiastico della Gallia condannò l’usanza di “fare il cervo” (cervolus facere) come un crimine, poiché si trattava di un costume pagano che manteneva l’antico sentimento religioso, contrario al cristianesimo.
Un altro dio cornuto, dal muso di toro, viene spesso confuso con l’essere dalle corna di cervo.
Anche la sua esistenza risale all’epoca preistorica: nella tradizione popolare il bue e lui sono sovente legati ai megaliti o a luoghi un tempo sacri.
Il patrono di Carnai, ritenuto il creatore degli allineamenti di pietre e il protettore dei buoi, portava il nome evocatore di Cornelio.
Le sue corna applicate ad una testa umana hanno simboleggiato per secoli la potenza, la forza fisica e psichica, tanto che persino il Mosè di Michelangelo, nella Chiesa del Gesù a Roma, porta due corna sul capo, a testimoniare il potere spirituale.


EPONA

Le divinità a forma di animale erano decisamente frequenti: molto amata era una Dea dei cavalli, Epona, che proteggeva l’allevamento e la doma di questi animali.
I Bretoni furono da sempre ottimi cavalieri, tanto che nel IV° secolo vinsero Carlo il Calvo proprio grazie alla loro efficientissima cavalleria.
Il Dio cavallo dei Bretoni (poiché esiste anche una versione maschile di Epona), lo troviamo anche nella leggenda di Tristano e Isotta; è re Marc, che i bardi hanno cantato come il marito della “regina dai biondi capelli”.
La toponimia e la tradizione hanno conservato il ricordo di questo personaggio: molti paesi portano nomi come Penmarch’h, in Bretone Testa del Cavallo, oppure Lostmarc’h, Coda del Cavallo e su un fianco del Menez-Hom, il monte sacro di Bretagna, si dice esista ancora la sua tomba.

Dopo l’epoca cristiana, il cavallo dei Bretoni ebbe un compagno: si tratta di Saint Telo, chiamato anche il Maniscalco, poiché nell’iconografia tradizionale egli viene rappresentato nell’atto di ferrare una zampa all’animale. Si è pensato che anticamente il suo nome fosse Elo o Helo, il che indicherebbe uno stretto rapporto con il termine Heol, sole.
Anche la scelta di questo santo da sostituire praticamente al Cavallo è da ricercare nella tradizione celtica: il Maniscalco rappresenta l’alchimia, poiché ha la capacità di trasformare il metallo, la materia primaria. Egli è dunque il grande maestro delle metamorfosi, il dio che aveva trasmesso parte del suo sapere ai drudi.
Attraverso i santi bretoni dunque, il politeismo è riuscito a sopravvivere; l’Armorica, passata alla religione del cristo ha continuato a venerare molti degli esseri sacri del proprio luogo.
Alcuni di essi erano certamente dei pagani cristianizzati, altri appartenevano alla classe dei principi bretoni d’oltre manica che, come capi religiosi o civili, avevano guidato le emigrazioni verso il continente.
Si contano in totale circa 900 di questi Dei-eroi, tra le figure importanti e meno note. Alcuni hanno fama universale, altri non sono conosciuti che ne raggio di pochi chilometri e le notizie sulla loro vita sono alquanto scarse. S.Telo, ha avuto lo scopo si perpetuare il culto degli Animali Sacri, S.Hubert prese sotto la sua protezione il mitico Cervo, S.Nicodème viene sempre associato ai buoi, come anche S. Edern, Cornelio, Uzec, Melar, Goulven, Iuna etc..
Ventitrè santi diversi, nel pantheon Bretone, sono protettori degli animali. Ciò testimonia l’esigenza profonda di un popolo di allevatori di ingraziarsi il potere sovrannaturale per la difesa del bestiame, ma anche meno prosaicamente, il riconoscimento tipicamente pagano e politeista di forze che agiscono nella natura e che possono essere rappresentate dai diversi animali. Gli animali con le corna furono sicuramente privilegiati in quanto simbolo di potenza.
Altri santi hanno avuto il merito di conservare le tradizioni dell’antica religione: sono i Sette Santi, chiamati i fondatori di Bretagna. Saint Melaine, primo vescovo di Rennes e Saint Clair, creatore del seggio episcopale di Nantes, fanno parte dei Sette. Gli altri sono: Samson de Dol, Tudwal de Treguier, Pol de Leon, Corentin de Quimper, Pater de Vannes.
Capita comunque di trovare delle variazioni e tra i Sette Santi spesso sono inseriti anche Malo d’Aleth e Saint Bieuc che ha donato il suo nome alla città omonima. Oppure accade come Vieux-Marchè, dove i Fondatori sono stati sostituiti dai Sette Dormienti d’Efeso, tardiva orientalizzazione del culto.
Appare chiaro che il culto dei Sette Santi, a volte considerati fratelli, risale ad un prototipo pagano che fu in seguito cristianizzato sotto forme differenti ma sempre in modo da conservarne il simbolo numerico, elemento essenziale di questa venerazione.
E’ in definitiva la cifra sette ad essere adorata poiché, secondo la tradizione, essa possiede potere taumaturgico.
In generale poi il potere di guarigione viene riconosciuto frequentemente alle divinità locali nascoste sotto le rappresentazioni dei santi cristiani.
Alcune divinità sono considerate molto potenti e quindi invocate per tutte le malattie, altre invece per ottenere buoni raccolti, per lottare contro la siccità o la pioggia eccessiva così tipica in Bretagna.
Tra questa folla di santi riaffiorano i grandi miti della tradizione popolare bretone e con loro la traccia di una evoluzione, di una trasformazione dell’animo umano nel tentativo di giungere ad una elevazione verso mondi superiori.
Credo che nella religione popolare armoricana, pur modificatasi nel corso dei secoli, si respiri ancora questa concezione di profonda unità tra mondo sensibile e mondo sovrannaturale, come se la lezione degli antichi non fosse mai andata perduta.
Questa filosofia dell’essere e l’antico insegnamento religioso si trova anche nei racconti e nelle leggende iniziatiche Bretoni, così chiamate per mettere in evidenza il loro carattere d’introduzione ad un livello superiore di esistenza.

 

Bibliografia

- Le Scouezec G. - 1986, Bretagne terre sacrée, Belta
- Markale J. - 1977, Contes populaires de toutes les Bretagnes, Ouest-France
- Le Braz-1979 , La lègende de la morte, Lafitte.
- Daniela Fiorini,-1995 l'invenzione della tradizione in Bretagna
- Le Gallo - 1975, Le paysan bretin e le mythe, Annales de Bretagne et des Pays de l'Ouest.

 

(presto on line i Racconti e le Leggende Iniziatiche Bretoni )

 

 

 

Già Procopio