Fa’ ciò che vuoi, sarà tutta la Legge.

Conoscenza e Potenza nell’esegesi tantrica

Di Sapah Zimii

 

 

Fa’ ciò che vuoi, sarà tutta la Legge.

 

Chiarite le basilari nozioni analizzate nella prima parte della mia trattazione sul Tantra (v. Cenni sulla Liberazione Tantrica), vediamo come si presenta il problema della Liberazione al livello dei siddha e dei kaula tantrici. Qui l’adharma (l’azione che viola il dharma) e la distruzione dei vincoli vengono considerati come un mezzo e una disciplina. In genere un simile comportamento è distruttivo, come si è visto, e qualunque essere, in particolare un pashu, sarebbe completamente disgregato da tale norma di comportamento, discendendo rapidamente nella gerarchia degli esseri.

Ma l’adepto di natura eroica, il vira, dà al processo un orientamento tale che l’azione, invece di risultare distruttiva, vincolante a livello karmico, risulta essere invece il trampolino di lancio che lo conduce verso l’alto. E’ come strappare i veli da cui la realtà originaria è coperta, come evocare un mondo primordiale, originario, potenziale (shaktico), in cui bene e male, divino e umano, non hanno alcun senso; trascendere le forme, spezzare tutti i limiti, destare il senso dell’Abisso senza esserne travolti ma ottenendo una trasfigurazione è uno degli obiettivi dell’Adepto della Via della Mano Sinistra.

Viene detto che ‘con gli stessi atti che fanno bruciare alcuni uomini negli inferni per interi eoni lo yogi ottiene la suprema Liberazione.’.

Il rischio di tutto ciò è comunque molto evidente; nei Tantra si trova a proposito l’immagine di una serpe giunta a una certa distanza dall’estremità di una canna di bambù che se si arrampicasse ancora senza raggiungerla e perdendo la presa, cadrebbe inesorabilmente verso il basso.

Il pericolo di deviazioni, la possibilità di scambiare qualcosa di completamente negativo per altro che possa condurre verso l’alto è estremamente alta e riconosciuta dagli stessi testi classici.

Ma gli stessi testi considerano che colui che ha raggiunto lo stato umano e non prova a superarlo, a trascenderlo, è come si uccidesse con le sue mani; ammettendo d’altra parte, come già intravisto che la via dei vira e dei kaula è ardua quanto andare su un fil di spada o cavalcare una tigre selvaggia.

Così è necessario esaminare a fondo se stessi, la propria natura, le proprie possibilità, la propria vocazione perché è detto che “dura è la grande via e ben pochi sono coloro che la percorrono sino in fondo. Ma è da dirsi grande colpevole chi, dopo essersi impegnato sulla via dello Yoga, torna indietro”. Costui si scava la fossa con le proprie mani.

Con questo si vuole assolutamente rendere chiaro che sebbene questa strada rappresenti davvero una delle poche possibilità di realizzazione dell’uomo moderno, d’altra parte è assolutamente necessaria una adeguata preparazione ed un orientamento adeguato, caratteristiche che come abbiamo visto solo un vero Maestro può fornire, ma che ancora prima dobbiamo trovare in noi stessi, esaminando approfonditamente la nostra aspirazione.

 

Ritornando e volendo fornire una risposta alla questione dell’azione che non vincola dal punto di vista karmico, bisogna distinguere due tipi fondamentali di forza karmica: il sakama-karma ed il nishkama-karma. Il primo è il risultato dell’azione compiuta con brama di risultato, secondo passione e desiderio; il secondo è invece il risultato dell’azione pura, compiuta come rito, con un senso sacrificale o come un’offerta al Supremo. Per questo modo di agire vengono molte delle limitazioni morali comuni vengono già soppresse. Come per esempio, ed è un esempio già al limite dell’etico, la norma di non uccidere. Nella Bhagavad-gita troviamo Krishna che incita Arjuna a combattere e ad uccidere, persino persone del suo stesso sangue, ma che si trovano sul fronte opposto, dichiarando che tale azione non crea Karma e non costituisce colpa se compiuta in modo ‘puro’, impersonalmente, aldilà della pura dualità.

A questo proposito nello stesso testo si trova scritto: “Questo mondo è vincolato dalle azioni, tranne che da quelle sacrificali: perciò, o Kaunteya, libero da ogni attaccamento, con un tale significato (sacrificale) compi ogni azione.” E ancora: “Dell’uomo libero da attaccamento, liberato, che ha la mente salda nella conoscenza, che compie ogni azione con un significato sacrificale, tutta l’azione si dilegua (ossia non crea Karma).”

In questo modo e non in altri si deve in tendere la frase spesso usata per cui la Liberazione può essere ottenuta con gli stessi mezzi, con le stesse azioni che hanno originato la ‘caduta’. Stesse azioni sì, ma liberate dalla brama di risultato, dalla passionalità, dall’istintività.

Proprio a proposito delle passioni che tanto spesso costituiscono un ostacolo a colui che si rivolge alla strada della conoscenza, viene rilevato dai testi del buddismo tantrico, che esse perdono la loro ‘impurità’, quando esse sono spersonalizzate, quando si fanno assolute e divengono nient’altro che una pura forza elementare.

In pratica bisogna smettere di identificarsi nella passione; non si dovrebbe dire io amo, io odio, ecc. ma piuttosto affermare che una forza si manifesta in noi come amore o come odio e via dicendo. Una forza impersonale, che non fa parte del nostro essere, ma che si può manifestare nella nostra personalità. Una volta percepita chiaramente la pulsione come qualcosa di estraneo al nostro essere, dal punto di vista tantrico, bisognerebbe non subirla passivamente ma rendersi attivi, trasportare, anche intensificando, la pulsione originaria, favorendone la completa emergenza elementare, ma rimanendo ben attenti di non farsi controllare, altrimenti ne risulterebbe una congestione, un coagulo, che andrebbe a formare una vera e propria ossessione. A ben vedere si tratta di una vera e propria operazione di evocazione, e tutto il segreto per non rimanere ossessionati sta nel mantenere il Cerchio sempre intatto e protetto.

Qual è il risultato di questo metodo? Che se il punto critico viene superato l’esperienza si sviluppa in modo positivo, facendo venire meno il carattere di compulsione e di necessitazione della passione stessa; in questo modo si diviene ‘Signore delle Passioni’, che è del tutto diverso dal reprimerle o tenerle a freno.

Nel testo Tibetan Yoga and Secret Doctrines traviamo scritto: “Quali pur siano i pensieri, le idee o le passioni atte a turbare che sorgono, esse da un lato non vanno abbandonate, dall’altro si deve impedire che ci dominino; le si debbono lasciar sorgere, senza cercare di dirigerle o formularle. Se ci si limita a guardarle distintamente nel loro sorgere e se si persiste in tale atteggiamento, ogni idea o passione si rivelerà nella sua vera essenza perché non la si è lasciata a se stessa. Grazie a tale metodo, tutto ciò che sembra ostacolare la crescita spirituale può venire usato come aiuto sul sentiero. Per questo codesto metodo è chiamato ‘l’utilizzazione degli ostacoli come aiuti sul Sentiero’.”

 

Dopo questa lunga ma assolutamente necessaria digressione se vogliamo etica basata su alcune delle nozioni base dell’impostazione tantrica, possiamo passare ora ad analizzare nei suoi tratti essenziali le dottrine metafisiche che i testi tantrici contengono in loro, e, in particolare mi riferisco alla nozione fondamentale di Shakti, di Potenza, che è, se vogliamo la base di tutto il sistema.

 

Conoscenza e Potenza

Si sarà già capita l’importanza che la dottrina tantrica riserva all’azione. In passato ho analizzato il fenomeno di scissione della Tradizione in due filoni principali, uno basato sull’Azione ed uno sulla Contemplazione, e nel considerare il Tantrismo non si può non notare subito la sua componente decisamente guerriera ed attiva che lo pone indubbiamente nel filone realizzativo basato sulla costante azione.

Quando si parla di Conoscenza, in questo ambito, quindi, si deve intendere Esperienza, in particolare esperienza diretta. Ciò è molto importante ed è la base della ‘rivelazione tantrica’.  Nell’India il termine rivelazione è riportato come shruti e non è assolutamente inteso alla stessa maniera in cui lo accettano le religioni monoteiste occidentali, e cioè alla stregua di un dogma a cui bisogna attenersi e avere fede. La shruti è riportata invece come un’esposizione di ciò che è stato visto ed è stato fatto conoscere da alcune persone particolarmente illuminate, i cosiddetti rshi. Rshi deriva da drshi, vedere, e significa appunto ‘colui che ha visto’.

Gli stessi Veda, considerati il fondamento di tutta l’ideologia indù, derivano dalla stessa radice, vid, infatti significa sia vedere che sapere.

In questo ambito la rivelazione non è altro, quindi, che l’esperienza di alcune persone che, riuscite a porsi in uno stato aldilà dell’ordinaria umanità, hanno, per così dire ‘visto’. E fin qui siamo vicini alla nostra concezione di rivelazione, la differenza sostanziale sta nel fatto che chiunque, seguendo una sorta di training, un addestramento, un metodo, che viene chiamato sadhana, può raggiungere gli stessi risultati, e quindi avere conferma personale dei dogmi fondamentali della dottrina.

Per i Tantra non ha molto valore la parte puramente teorica, quanto la realizzazione pratica del sadhana al fine di poter acquisire personalmente determinate esperienza e quindi, incrementare la propria Conoscenza.

Arthur Avalon fa notare giustamente che ‘la causa dell’incomprensione nei riguardi dei principi del Tantrismo risiede nel fatto che essi non si rendono intelligibili che attraverso il sadhana’.

I Tantra negano apertamente la possibilità di acquisizione passiva della conoscenza e propongono una via d’azione molto diretta e secca, che fa ampiamente uso di Rituali, di Evocazioni e di altre pratiche dal sapore squisitamente magico. Si può pertanto rilevare che l’approccio tantrico, proprio come l’approccio puramente magico è prettamente sperimentale, secondo un’ottica però che non si limita, come la scienza moderna, al solo uso dei sensi fisici. E’ chiaro che l’uomo comune del kali-yuga non può avere i mezzi per superare tale limitazione, ma per il Rshi, per lo yogin o per il siddha tantrico, tale limitazione non può sussistere. L’assioma di tutto lo Yoga e di tutto il tantrismo è il motto nietzschiano  secondo il quale l’uomo è qualcosa che può e deve essere superato.  Fine di tutte queste pratiche, infatti non è altro che il superamento della condizione umana, condizione che, in ultima battuta non è altro che finzione, o meglio illusione, velo di una realtà ben diversa.

E qui bisogna introdurre il concetto di Maya, cioè di illusione del mondo manifesto, di quello che i nostri sensi fisici ci fanno percepire. Qui il discorso si fa complesso perché se anche è vero che in ultima analisi si può arrivare a concepire il concetto di Maya o di illusione, è anche vero che per l’uomo comune questo mondo rappresenta una realtà più che concreta, dalla quale è impossibile sfuggire, almeno finché legato alla vita. Questo concetto origina anche problemi di  natura filosofica di non semplice soluzione in quanto, solo per portare un esempio, noi siamo fatti di mente e corpo; ma se questa mente e soprattutto questo corpo sono falsi, come possiamo sperare di raggiungere tramite loro mezzo ciò che invece è vero?

Sotto questo punto di vista la dottrina Maya andrebbe a negare la possibilità stessa di innalzarsi ad una posizione superiore. Ma il sadhana tantrico ha in parte ovviato a questi dilemmi irrisolvibili, puntando ancora una volta sull’azione a prevenzione di ogni evasionismo contemplativo, introducendo il concetto della shakti e ridimensionando quello di Maya.

 

 

Shakti; il mondo come potenza.

Il concetto di Shakti, nonostante oggigiorno è spesso semplificato a indicare una polarità femminea, è in realtà estremamente complesso.

Alla Shakti vengono dati gli stessi attributi di Brahman : non ha nulla fuori di sé, è sola e senza un secondo; da lei i mondi si sono manifestati, da lei sono sostenute ed, infine, da lei verranno riassorbiti, o meglio, è in virtù del suo potere che Brahma crea, che Vishnu conserva e che Shiva, alla fine dei tempi, dissolve.

Vale la pena spendere qualche parola sulle tre divinità citate perché esse rappresentano quello che viene chiamata la  ‘Triplice Forma’, o Trimurti, il vertice della piramide dell’attività divina. Brahma è, infatti il dio dell’origine, colui che presiede all’emanazione dell’universo traendolo dal caos primordiale e strutturandolo nel mondo manifesto.

Vishnu è il personaggio centrale della Trimurti, è il Signore della conservazione della Vita e guida e protegge tutte le creature. Per questo egli stesso si è ammantato di diverse incarnazioni fisiche dette avatar.

In ultime è a Shiva che è demandato il compito di distruggere tutto alla fine di ogni ciclo, dissolvendo il cosmo e purificando tutto in attesa di una nuova alba. Per gli Shivaiti, contraddistinti da tre linee rosse sulla fronte, Shiva non è soltanto il dio della Distruzione, ma anche il Dio supremo, dispensatore di vita e di morte.

Ma torniamo alla nostra Shakti; essa viene talvolta chiamata ‘Supremo del Supremo’, per indicare in lei l’energia tramite il quale il Supremo non potrebbe sussistere.

Concepita così primordialmente come energia che non ha nulla che le sia superiore prende il nome di Parashakti, ed in questa forma assume talvolta il ruolo di Magna Mater demetrica, quale madre degli dei, quale divinità signora e produttrice di ogni forma ed esistenza.

La manifestazione di Shakti viene considerata libera, ella non ha limitazioni di sorta, non conosce leggi, nulla la costringe a manifestarsi; e così, poiché sul piano umano il prototipo dell’azione libera per eccellenza è il gioco (lila), nei Tantra viene detto che la manifestazione è un gioco, e che di gioco la Shakti è sostanziata (lilamayshakti).

Quindi in tutte le forme dell’esistenza umana, sub-umana e divina si esprime solamente l’eterno gioco solitario della suprema Shakti (Parashakti come abbiamo già visto).

Da questo punto di partenza il simbolismo tantrico è confluito in quello shivaita appropriandosi del motivo della divinità danzante, sempre a simboleggiare comunque una totale libertà di movimento, di completamente sciolto. Non Shiva, quindi, ma Shakti aureolata di fiamme è il simbolo della dea intesa nel suo aspetto propriamente produttivo.

Tali dottrine vennero in seguito comparate con le filosofie del Samkhya.

Il Samkhya è un sistema di filosofia (darshana) che pone un a dualità originaria: Purusha e prakrti, corrispondenti al maschile e femminile, associando l’uno al principio immutabile, l’altro all’eterno movimento o divenire.

In sé prakrti viene concepita in uno stato di equilibri di tre forze dette guna, ma il riflesso su di lei di purusha  rompe questo equilibrio, provocando un moto e dando origine al cosiddetto samsara.

Sto cercando di semplificare al massimo perché in realtà tutti questi concetti danno ognuno origine a complessi dibattiti filosofici ed ogni sfaccettatura da origine ad una differente interpretazione di tali dottrine. Ma il mio, trattandosi di un lavoro puramente introduttivo non si vuole spingere troppo oltre allo stadio di fornire informazioni di base, quale punto di partenza per una ricerca culturale ed interiore che si annuncia, sin dalle prime battute, davvero titanica.

Frettolosamente ritorno quindi al mio discorso cercando di far capire come nel tantrismo purusha e prakrti vengono ripresi, ma non più concepiti come dualità primigenia, al contrario vengono presentati entrambi come differenziazioni della Shakti primordiale e cioè come Shiva (Il principio metafisico mascolino) e Shakti (intendendo questa volta una Shakti limitata, identificante il principio metafisico femmineo, e tradotta in questo caso come sposa, anziché come potere, intendendola ovviamente la sposa di Shiva). Gli attributi rimangono i medesimi del Samkhia: a Shiva viene attribuita l’immutabilità, il principio cosciente; a Shakti è invece proprio il concetto di mutamento e movimento.

Dopo queste nozioni possiamo capire come i tantrici superino il pericoloso scoglio della dottrina di Maya, o di illusione del mondo fisico; essi riferiscono, infatti, l’illusione (maya) ad un potere (shakti), costruendo così una Maya-shakti, una manifestazione della Shakti Suprema. Essi giocano anche sul duplice significato di maya che oltre illusione può significare anche magia nel suo senso più elevato. Quindi riportando maya a maya-shakti essi fanno apparire il samsara come l’eterno gioco della Dea.

Mi rendo conto che i passaggi mentali e dottrinali necessari per comprendere appieno questi concetti sono moltissimi e vastissimi, ma è necessario diventare piuttosto familiari con questi concetti, che rappresentano la base di tutto il complesso dottrinario tantrico.

Forti di queste conoscenze, prossimamente ci addentreremo nell’analisi di uno dei più importanti rituali tantrici, il Rituale Segreto o Pancatattva, il Rituale delle 5 M.

 

Amore è la Legge, amore sotto il dominio della volontà.